BA’AL – Signore o BELZEBU’ – Demonio?

Assai diffuso tra i Fenici, era usuale anche tra gli Israeliti dell’epoca dei Giudici e in quella dei primi Re, come dimostrano molti nomi composti con Ba’al.

“Ba’al” significa anche “sposo”. Però il culto del “Ba’al del cielo”, venerato dai Cananei come il loro dio principale, e quello specialmente del Ba’al di Tiro (Melkart), rappresentò, dall’epoca di Elia, un grande pericolo per la purezza della fede di Iahweh, provocando la veemente condanna dei profeti, tanto ché  l’uso di tale espressione, di per sé indifferente, fu bandito.

Il dio Ba’al

Per inciso,  il nome Ba’al ZəbûlIl signore della Soglia (dell’Aldilà), nella Bibbia viene nominato spesso spregiativamente, con un gioco di parole, come Ba’ al Zebub, “Il signore delle mosche”.
La variante Baalzebul del nome Ba’al è in effetti ampiamente attestata nella letteratura antica, ivi compreso il testo greco del Vangelo (Matteo, 10:25, 12:24-27 ecc.), e in Lingua ugaritica è attestato con l’espressione zbl b’l il cui significato è “signore della terra”.
Da Ba’al Zəbûl, a Belzebù il passo è breve.
Divinità ormai messa all’indice a favore del monoteismo ebraico, con il nome biblico Ba’ al Zebub (Belzebù in italiano) è entrato nella cultura cristiano-occidentale ed islamica come entità diabolica suprema: Beelzebub, uno dei “sette prìncipi dell’Inferno”.
È spesso identificato dalla tradizione cristiana con Satana, ma, in verità, i documenti storici ci dicono che in origine non era così.
Ba’al, sincretisticamente, proviene dal semitico Hadad, a sua volta proveniente dall’accadico Adad, la cui fonte primaria originaria è il sumero Ishkur, il dio degli uragani, tempeste, tuoni e pioggia.

Dingir Ishkur

Considerato tra le divinità principali del pantheon, della sua doppia valenza degli aspetti propri del dio, cioè la tempesta distruttrice e la pioggia fertile, è fatta citazione nel poema Atrahasis e nell’Epopea di Gilgamesh.

Hadad

 

Il sigillo “Cilindro della Tentazione”

Per Adamo ed Eva, e per tutto quello che a loro è riconducibile, si è fatto spesso riferimento al cosiddetto “cilindro della tentazione”, oggi conservato presso il British Museum.


Di tale reperto si è detto ripetutamente, ma con troppa superficialità, che si tratta di un “documento scritto” con incisa la vicenda originaria del “peccato originale” e che abbia paternità sumera.

Si tratta, però, solo di un semplice stampo proveniente da un antico cilindro privo di qualsivoglia striscia di scrittura che ci aiuti a comprenderne l’autentico significato. Questo cilindro, risalente al periodo babilonese del III millennio a.C., disegna due figure antropomorfe di cui una è una divinità, come testimonia il copricapo cornuto. I due soggetti si fronteggiano tendendo una mano alla base di un albero composto da sette braccia e da due frutti sottostanti. Alla spalle della figura di sinistra, dalle sembianze femminili, si innalza un serpente con la testa rivolta verso la donna. Gli elementi presenti in questa impronta sono, quindi, l’albero, i frutti, l’uomo, la donna e il serpente. Questi particolari hanno fatto sì che, a seguito dell’elaborazione a favore della veridicità assoluta dei racconti della Bibbia da una parte, contro l’originalità e l’azione ispiratrice dei racconti sumeri, dall’altra, si sia troppo spesso giunti alla conclusione univoca che tale riproduzione rappresentasse la tentazione di Eva da parte del diavolo/serpente nel Giardino dell’Eden. Uno dei primi, se non il primo, fu lo stesso George Smith, lo scopritore e traduttore dell’Epopea di Gilgamesh[1], che nel 1875 battezzò lo stampo in questione con il titolo indicativo di “Peccato originale”.

Ma le cose, se valutate con più attenzione, assumono un significato diverso. Innanzitutto, al tempo dei Sumeri, la simbologia del serpente era tutt’altro che negativa. Essa simboleggiava la potenza benefica, la conoscenza, il segreto o il detentore dei segreti: ben 7000 anni prima della stesura della Bibbia, l’ofide era una divinità venerata nel Levante. L’eccezionale caratteristica di mutar la pelle, con la conseguenza di tornare “a nuova vita”, ha fatto guadagnare al serpente l’attributo di signore del mistero della rinascita

L’albero a sette braccia, poi, non ha nulla a che vedere con la nota Menorah biblica voluta da Dio come ci arriva dall’Antico Testamento (Esodo 25, 31-40); le due cose sono temporalmente molto distanti fra loro, si parla di oltre 1500 anni. Piuttosto, sia nel linguaggio che nelle rappresentazioni iconografiche sumero-accadiche, il “sette” sta a significare un numero indeterminato, o una grande quantità[2]. Nel particolare riportato nel sigillo, l’albero sta ad indicare una grande palma di datteri con in bella vista i frutti pronti per essere colti, rappresentazione iconografica stante a simboleggiare la conoscenza[3].

Ma per chiudere definitivamente l’argomento, in tutta la letteratura accadica conosciuta non esiste alcun testo che faccia riferimento al “peccato originale”, tanto meno a un malvagio serpente tentatore[4].

 

 

(tratto da “Schiavi degli Dei” – (c) Biagio Russo 2009 – 2010)

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[1] G. Smith, Chaldean account of Genesis, p. 91, Londra 1875.

[2] .G. Furlani, Riti Babilonesi e Assiri, p. 102  Istituto delle edizioni accademiche, Udine 1940.

[3] R. Graves e R. Patai, I miti ebraici, p. 94, Genesis Rabba, midrash sul libro della Genesi, da Longanesi & C., Milano 1980.

[4]  I. Testa Bappenheim – F. Lampugnani, Bibbia e… p. 66, op. cit.

La sessualità degli antichi popoli

La maggior parte dei popoli antichi, dai tempi più remoti (60.000/40.000 anni fa) viveva secondo una filosofia che cercava l’armonia con l’energia cosmica, di cui l’energia sessuale era parte integrante.
L’energia cosmica era la manifestazione dell’energia di Dio, che parlava un linguaggio femminile.
Durante il periodo che va dal paleolitico al neolitico (dal 10.000 a.C. quando cominciò a svilupparsi l’agricoltura) fino all’Età del Bronzo, Dio fu associato alla Grande Madre Terra, la fecondità, che dominava in tutte le civiltà più antiche, dall’Europa al subcontinente indiano.

Essa si manifestava mediante la sua capacità creativa, in ogni sua forma (animale, vegetale, minerale e umana).
La sessualità e il parto erano espressioni della sua energia e del suo potere nelle vite degli esseri umani e di ogni essere vivente.

All’immagine del femminino archetipico viene fornita una definizione mitologica (Inanna, l’Iside egizia, la Grande Madre Neolitica, l’Eva, la Sofia e la Maria bibliche) che è sopravvissuta per più di cinquemila anni, anche se è stata oscurata, frammentata e travisata.

(M. Concannon)